Evangelii gaudium

Ripartire dalla Gioia del Vangelo a qualcuno può apparire banale e quasi scontato, con tutti i problemi che affliggono la Chiesa e il mondo. Eppure Papa Francesco, il vescovo venuto quasi dalla fine del mondo, ci ha insegnato in questo anno di pontificato che la rivoluzione nasce dalle cose semplici. Una valigia portata a mano sulla scaletta di un aereo, una telefonata e un abbraccio fuori programma gli hanno consentito di toccare il cuore di tanti, da semplici uomini e donne di ogni parte del mondo, sino al gotha dei giornalisti redattori della rivista Time, che lo hanno indicato come uomo dell’anno.

Nella sua prima esortazione apostolica Francesco ci indica uno stile d’annuncio che va alla radice sconvolgendo una falsa immagine dei cristiani e della Chiesa. “I cristiani hanno il dovere di annunciarlo (ndr. Vangelo) senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”” (Evangelii gaudium n° 14).

Sono parole chiare quelle di Papa Bergoglio. L’annuncio deve essere universale e deve aprirsi alla gioia della Salvezza, che è stata preparata per tutti gli uomini della Terra. Questo annuncio deve partire da cristiani che non mettono davanti gli obblighi, i doveri e i limiti ma da cristiani che sostituiscono la “Chiesa dei no” con quella della Speranza e dell’apertura. La Chiesa crescerà solo se terrà fede all’esempio delle prime comunità cristiane: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore e godendo la simpatia di tutto il popolo” (Atti degli Apostoli cap. 2,46-47).

Questo stile apparentemente semplice non può però limitarsi a svolgere il proprio “compitino” tra le quattro mura della Chiesa, dell’oratorio o dell’associazione ma deve necessariamente aprirsi e cercare nuove strade, a partire dalla negazione profonda del “si è sempre fatto così”. È una pastorale che ama profondamente il rischio di “sporcarsi con il fango della strada”. È una pastorale che tende all’essenziale non fermandosi ad una moltitudine di precetti e norme ma cercando di spiccare il volo verso il cuore del Vangelo e della lieta notizia di un Dio, che spende la sua vita per le sue creature. È una pastorale che nega la schizofrenia del tempo moderno e per questo rifiuta la norma sociale che determina un tempo per l’annuncio e un tempo per le cose del mondo. L’annuncio passa in primo luogo per il contatto personale e quotidiano e pertanto passa per i luoghi di vita, di lavoro, di tempo libero e di riposo. Dobbiamo essere continuamente predisposti all’annuncio proprio perché anche il nostro tempo ha sempre più bisogno di testimoni.

Non si deve però pensare che questa pastorale sia una sorta di languido pensare positivo o di sdolcinato sentimentalismo, svuotato dalla funzione sociale della nostra fede. Su questo rischio le parole di Papa Francesco sono estremamente precise. “Esiste un certo cristianesimo fatto di devozioni, proprio di un modo individuale e sentimentale di vivere la fede, che in realtà non corrisponde ad un’autentica “pietà popolare”. Alcuni promuovono queste espressioni senza preoccuparsi della promozione sociale e della formazione dei fedeli e in certi casi lo fanno per ottenere benefici economici” (op. cit. n° 70). Queste derive devono essere evitate.

Allo stesso modo lo scenario di una pastorale “in uscita” può essere osteggiato da un falso sentimento di tolleranza. “Il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in un modo arbitrario che mette a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose” (op. cit. n° 255).

Lo scenario, che viene delineato dalla Evangelii Gaudium, è quello di annunciatori realmente liberi che non si devono far prendere da quell’ansia di prestazione, che spesso colpisce soprattutto coloro che sono maggiormente impegnati nella pastorale.

“A volte ci sembra di non aver ottenuto con i nostri sforzi alcun risultato, ma la missione non è un affare o un progetto aziendale, non è neppure un’organizzazione umanitaria, non è uno spettacolo per contare quanta gente vi ha partecipato grazie alla nostra propaganda; è qualcosa di molto più profondo, che sfugge ad ogni misura” (op. cit. n° 279).

Massimiliano Franzoni

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